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[Something more...] Genitori a bordo campo

Ufficio Stampa GSB
23 Marzo 2018

Lo sport è braccia e gambe o qualcosa di più (in inglese, something more)?

Con questa rubrica il GSB vuole dare spazio a riflessioni di ampio spettro sulla psicologia dello sport.

La tensione scorre sottile già da qualche ora, l'aria è densa di adrenalina, eccitazione avvinghiata all'ansia che si localizza all'altezza dello stomaco e spezza un po' il respiro. L'odore del borsone, il completino ufficiale, i calzini porta fortuna: “Non dimenticare l'acqua!”. Immagini nella testa che alternano azioni mirabolanti alla Magic Johnson e terribili catastrofi con errori irrecuperabili. L'ingresso in palestra è come il passaggio in un'altra dimensione, i muscoli reagiscono attivandosi in un incontrollata necessità di movimento. Lo stridio delle suole di gomma sul parquet innesca una reazione a catena che richiama sul campo di gioco, come le sirene, Ulisse.

Il riscaldamento proietta in configurazione partita: competizione, trepidazione, impazienza. Una smania eccitante e carica di suoni, odori, luci, il sapore dello scontro si sente anche in bocca. L'arbitro fischia. E poi è l'ora di sedersi sugli spalti e di ricordarsi (se non siamo riusciti a farlo prima) che è nostro/a figlio/a che gioca e quelle sensazioni le sta vivendo anche lui/lei in modo molto più coinvolgente di noi. Con in più il fardello delle aspettative dei genitori che gli penzola sulla testa. Perché qualunque atteggiamento possiamo avere noi, anche il più compassato e misurato, i figli subodorano le nostre aspettative e fanno costantemente i conti con il nostro giudizio.

Diciamocelo, giudichiamo eccome! Giudichiamo l'allenatore, la società, gli altri atleti che giocano con lui/lei, gli altri genitori e giudichiamo lui/lei.

Finalmente, che liberazione poterlo dire! Non potrebbe essere il contrario; come si fa a non avere un opinione sulla cosa più importante della vita?

Poi, però, bisogna fare un passo avanti cominciando a pensare anche a lui/lei: piccolo/a esordiente della vita alle prese con compiti titanici. Cominciare a pensare non solo all'effetto che le sue esperienze producono in me, ma anche che cosa succede a lui/lei, che è sempre, sempre, una persona diversa da me. Magari questo passaggio di prospettiva ci può facilitare nel porci in una relazione di aiuto per lui/lei, di supporto e di sostegno emotivo empatico rispetto a quello che lo scuote dentro.

I nostri figli non hanno bisogno di un preparatore atletico, allenatore, mental coach, psicologo, o quant'altro. Questo già ce l'hanno da altre persone. Hanno bisogno di babbo e di mamma e dell'affetto, attenzione, interesse, amore sconfinato che siamo in grado di dare. Tutto il resto è roba nostra. Dunque liberiamoci dai sensi di colpa e giudichiamo pure tutto quello che vogliamo dipingendoci nella testa un mondo che filerebbe liscio come l'olio se fossimo noi a determinarlo, ma poi svegliamoci dal torpore e torniamo ad essere spettatori delle vite dei nostri figli, che non ci appartengono, non ci riscattano (quel che è fatto è fatto) e neppure ci danno altra vita. Liberiamoli da noi stessi e facciamoli volare in alto fin dove riescono ad arrivare!

Staff GSB


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